«Sono seduta sull’amaca sospesa al trave della tettoia. Mi godo la pioggia obliqua di novembre. Sbuccio una melagrana. I chicchi si staccano rosso rubino e aciduli dagli alveoli biancastri. Il nespolo di Germania è picchiettato di frutti bronzei. Giacca e cappello d’incerata, stivali di gomma, davanti a me foglie fattesi luce. È la felicità.»
Quando ci siano fuori ad attenderci un orto o un giardino, non si vorrebbe far altro. è la pace. Un senso di pienezza. Quella beatitudine che fa assaporare il vento, le nuvole nel cielo azzurro, il pendio di una collina, uno scroscio di pioggia. Quasi si ha pudore di riconoscersi appagati per così poco. Più facile sfoggiare tutto quello che ci hanno condizionato a desiderare ma non è mai servito a renderci felici. Cedendo a un desiderio che aveva da sempre, quello di vivere in campagna, Pia Pera si trasferisce in un podere, dove si scopre analfabeta.
Nel senso: non sa fare assolutamente niente. Ma non si scoraggia, anzi: intuisce che inizia lì l’avventura che la porterà a una terra sconosciuta, o meglio, alla terra. Occupandosi di alberi da frutta e ortaggi, impara a conoscere il mondo naturale, intreccia nuove amicizie, trova maestri che le trasmettono la loro esperienza. Soprattutto scopre una felicità che non aveva mai assaporato, prova il desiderio di raccontarla.
Chissà se, avvertititi di questa felicità, ci accorgeremo di avere bisogno di infinitamente meno per sentirci appagati. Di essere più liberi di quanto crediamo, che invertire il senso di marcia, smettere di distruggere il nostro pianeta, sarebbe, dopotutto, possibile. Che coltivare il cibo che mangiamo, renderci il più possibile autonomi dal mercato, non sprecare, inquinare un po’ meno è un modo degno di vivere e lasciar vivere. Cronaca di un apprendistato orticolo, L’orto di un perdigiorno si conclude con la dispensa piena ma soprattutto con un invito alla riconciliazione con la natura.
«Pia fa spuntare sulla pagina i suoi ortaggi esattamente come spuntano dal terreno. Complice un azzeccato andamento diaristico (che presuppone una totale ignoranza di ciò che sta per accadere) la scrittura del libro è lo specchio fedele di quella che evidentemente è una specie di scrittura dell’orto.»
Emanuele Trevi
Pia Pera (Lucca, 12 marzo 1956 – Lucca, 26 luglio 2016) è stata scrittrice di saggistica e narrativa e traduttrice dal russo. Esordisce nella narrativa con il libro di racconti La bellezza dell’asino (Marsilio 1992) e il romanzo Il diario di Lo (Marsilio 1995; Ponte alle Grazie). Del 2000 è il saggio L’arcipelago di Longo Maï. Un esperimento di vita comunitaria (Baldini&Castoldi) che segna una svolta: in cerca di una diversa dimensione del vivere, Pia Pera lascia Milano per trasferirsi nel podere di famiglia in Lucchesia dove matura una filosofia del giardino che sarà al centro della sua produzione letteraria successiva: nel 2003 esce per Ponte alle Grazie L’orto di un perdigiorno. Seguono Il giardino che vorrei (Electa 2006, Ponte alle Grazie 2015), Contro il giardino, con Antonio Perazzi (Ponte alle Grazie 2007; 2021), Giardino & Ortoterapia (Salani 2010, ripubblicato ampliato come Le virtù dell’orto, Ponte alle Grazie 2016), Le vie dell’orto (Terre di mezzo 2011; Ponte alleGrazie, 2021). Ha scritto di naturae giardino anche su Gardenia, Il Giornale, Internazionale, Diario, sulla Domenica del Sole 24 Ore. Nel 2012 scopre di esseremalata di sclerosi laterale amiotrofica,muore quattro anni dopo. Il raccontodell’attesa della morte è al centro delsuo capolavoro, Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie 2016),finalista al premio Viareggio e vincitore delpremio Rapallo. La sua vita è narrata nelromanzo Due Vite di Emanuele Trevi(Neri Pozza 2021) vincitore del premioStrega 2021.
Con uno scritto di Emanuele Trevi
e illustrazioni di Stefano Faravelli
Pia PERA
“L’orto di un perdigiorno”
Ponte alle Grazie
In libreria dal 11 novembre
pp. 250 – euro 29,00