Michael Clark è l’incipit. L’inizio, una pagina bianca, l’agitatore che ha sfidato il sistema,
che ha lanciato un paio di dita scintillanti in faccia alla cultura populista e dandone vita ad un’altra. Michael Clark è il punto di riferimento che ha spinto altri a fare lo stesso. In quanto tale, lui è incastonato in profondità, da qualche parte, nelle fondamenta nell’essenza nel valore di JW Anderson e spinge ora l’urgenza di una tabula rasa.
Un nuovo inizio, in contrasto con la cultura dominante. La notorietà conta, la novità insensata non tanto. Da questo presupposto nasce il confronto con l’idea di ciò che è stato fatto. La storia e il lungo termine: come prospettiva, non come fardello. Superare il rifiuto in nome della lucidità.
Quindici anni di JW Anderson sono condensati qui e ora, il tutto rifatto e rivisto, mescolato all’immaginario di Michael Clark, ai cimeli, persino al solo nome e a ciò che ne rappresenta. Una riduzione catartica all’essenza, che si ricollega ai tropi e al principio. Reclamare il senso di possesso: delle geometrie, delle imbottiture, dei drappeggi, della schiettezza.
Dei tagli e delle raffinatezze sbilenche, dei pannelli e dei risvolti. Dei cappotti architettonici, dei colletti scultorei, perfino le ancore e le strisce bretoni. Uno scambio costante: prima e ora. Ridurre, comprimere, condensare. E poi di nuovo, ancora. Sono curioso, arancione.