Che il cosiddetto junk food faccia male non è più una scoperta, che una alimentazione ipercalorica, ricca di colesterolo e di zuccheri possa essere molto dannosa per la salute non è una sorpresa. Lo sappiamo, o dovremmo saperlo tutti. Ma chi avrebbe immaginato che una alimentazione da fast food (e compagnia bella) potesse anche aumentare il rischio di depressione? Chi si nutre male e privilegia il cosiddetto junk food ha fino al 40% di possibilità in più di diventare depresso, secondo una ricerca della Manchester Metropolitan University.
A questo – lo diciamo noi e non la ricerca di cui stiamo parlando – aggiungiamoci la depressione derivante dall’insoddisfazione per il proprio corpo che con una dieta a base di fast food non potrà assolutamente essere quello di un modello o di una modella… e il gioco è fatto.
Ma torniamo alla ricerca della Manchester Metropolitan University. La scoperta è scaturita dall’analisi di altri 11 studi precedenti, in cui veniva associato il rischio di depressione ad una ‘dieta infiammatoria’ riguardando più di 100,000 soggetti distribuiti in quasi tutte le parti del mondo.
Una dieta infiammatoria è una dieta ricca di zuccheri, grassi idrogenati come quelli contenuti nella margarina, oli vegetali e di semi, carboidrati raffinati (come il riso bianco ad esempio), abuso di alcohol, carni lavorate (bacon, salsicce, carni affumicate).
La dieta mediterranea, ma anche questa non è una sorpresa, a base di olio di oliva, pomodori, verdure e pesce sembra avere invece un effetto antidepressivo.
Questa ricerca è molto importante, perché potrebbe permettere di trattare alcuni tipi di depressione anche intervenendo sulla dieta e così riducendo i rischi associati a quella classe di farmaci che va sotto il nome di antidepressivi, di cui tutti conosciamo gli effetti collaterali spesso molto sgradevoli e potenzialmente pericolosi (chiaramente quando la depressione è tale da impedire di condurre una vita normale anche gli effetti collaterali diventano in qualche modo accettabili).
Se volete saperne di più ecco il link alla pagina pubblicata dalla Manchester Metropolitan University
In collaborazione con ADVERSUS